venerdì 19 novembre 2010





(immagini rubate dal web)

Domenica pomeriggio.

Tuta da ginnastica e i-pod come compagnia per la mia corsa pomeridiana.
Esco di casa, attraverso la strada di corsa e mi perdo in una zona verde, con pochissimo traffico.
La musica mi fa compagnia e le gambe prendono subito il ritmo giusto.
All’improvviso un brivido sgradevole, una sensazione inquieta che mi prende di sorpresa.
É l’odore aspro di resina, probabilmente viene da qualche albero spezzato dai recenti temporali o dalla neve dell’inverno scorso.
Marcel Proust diceva che gli odori hanno il potere di farci muovere indietro nel tempo.
Aveva ragione.
All’improvviso mi ritrovo bambina e sono di nuovo la ragazzina cresciuta tra i monti.
Quando andavo per boschi con mio cugino, più grande di me di soli 2 anni, e ci fermavamo ore a ascoltare il silenzio, quel silenzio surreale che c’é solo nel bosco, e l’unico rumore arriva dall’alto ed é il vento che accarezza le punte delle chiome degli alberi sopra le nostre teste. Un silenzio ovattato, accompagnato da un odore umido, che diventa ancora più forte se é in arrivo un temporale. E i ciclamini, che sono piccolissimi ma hanno un profumo fortissimo, mica come quelli del fiorista. E passavamo pomeriggi interi nei boschi, a inventarci storie, noi due e il nostro cane, che tirava come un disperato e io tornavo a casa con un braccio indolenzito per la fatica di tenerlo al guinzaglio. E una volta ci siamo addormentati ad ascoltare quel silenzio, sdraiati in quel fresco fogliame, e quando ci siamo svegliati c’era un cerbiatto che ci fissava, immobile a pochi metri da noi.
All’improvviso mi tornano in mente tutte queste cose.
Quando mio cugino mi ha insegnato a contare gli anelli di un tronco tagliato per stabilire l’età delle piante.
Quando io e lui passavamo ore e ore nel vecchio fienile.
Quando mi hanno insegnato a spaccare la legna per il camino: “bisogna stare ben piantati sui piedi, sennò rischi di tirarti l’accetta in una gamba”.
Quando abbiamo raccolto tutte le mele di un albero per portarle ai cavalli di un maneggio lì vicino, e mio zio (che coltivava quell’alberello da anni) si é incazzato da matti.
Quando siamo andati a rotolarci in un prato non sapendo che pochi giorni prima era passato un gregge di pecore e non solo siamo tornati a casa maleodoranti, ma abbiamo anche preso le zecche, tanto che hanno dovuto togliercele con l’accendino, con noi due che strillavamo come se ci stessero marchiando a fuoco.
Quando fuori pioveva per giorni e giorni, come solo in montagna, e allora la soffitta diventava la nostra sala-giochi.
Quando in quella stessa soffitta abbiamo trovato una famiglia di ghiri in letargo (avete mai tenuto in una mano un ghiro addormentato, tutto avvolto nella sua coda? É un’esperienza che ti cambia dentro).
Quando sapevi che appena finita la pioggia i boschi si sarebbero riempiti di funghi, e forse é per questo che per me quella vecchia canzone di De Gregori ha sempre avuto un sapore speciale.
Quando abbiamo recuperato il vecchio fucile da caccia del nonno e ci abbiamo giocato ai banditi non sapendo che era ancora carico e quando poi se n’é accorto nostro zio ci ha gonfiati di botte tutti e due. Tanto per parcondicio.
Quando a fine estate le nostre mamme facevano la marmellata con le fragole dell’orto e i mirtilli selvatici, ed era dolce da poterci consolare per tutto l’inverno.
Quando giocavamo a chi riusciva a stare più tempo a fissare il sole senza chiudere gli occhi.
Quando raccoglievamo pezzi di corteccia d’albero nel sottobosco e ci ritagliavamo barchette, velieri e galeoni dei pirati.
Quando il vecchio fienile era un luogo inesplorato, e le sere d’estate arrivava un tasso, che probabilmente aveva la tana lì vicino, con il suo muso striato di bianco come se un imbianchino maldestro gli avesse disegnato due strisce, scendeva dal bosco, entrava nel nostro giardino, con le sue zampette corte calpestava tutti i geranei e la mattina dopo sapevi con certezza che era passato dal gran numero di zolle di terra rivoltate. Cose che a raccontarle a chi vive in città non ci si crede.
Ecco, io di quel luogo voglio ricordare solo questo, voglio ricordare solo le cose belle, voglio far finta che sia stato davvero il mio far west, la mia disneyland di montagna.
Tutto il resto preferisco dimenticarlo: le cattiverie, le invidie, le vendette, il vostro essere meschini, le critiche, il mio non essere mai abbastanza, mai alla vostra altezza, le cose non dette, il sarcasmo, le offese, infine gli insulti.
Sono ancora immobile, persa in questi ricordi, quando la musica del mio ipod mi riporta alla realtà.
Dio benedica la ripetizione casuale dell’ipod, la funzione random, che mi salva da questi pensieri assegnandomi all’improvviso quella canzone, quella del dito medio alzato (niente potrebbe essere più adatto in questo momento), che mi solleva da questi ricordi e mi riporta nel mio presente e futuro.
La mia carta d’identità recita: “Nata a Pieve di Cadore”.
Come un marchio di fabbrica.
Come la mia lettera scarlatta.
Ecco, tenetevela Pieve di Cadore, tenetevi le dolomiti, tenetevi i monti che si tingono di rosa al tramonto, tenetevi la neve d’inverno e i gigli selvatici d’estate, tenetevi tutto, tenetevi il vecchio cassettone di legno che mi spetterebbe per asse ereditario, tenetevi anche tutta la valigia di brutti ricordi che contiene.
Io non visiterò più quei luoghi.
Ho scelto altre geografie per far mettere radici ai miei sogni.



Colonna sonora: Rio - Ultima cellula
ma anche: Bruce Springsteen - My city of ruins

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